Boccaccio contemporaneo: una novella attualizzata

ELISABETTA DA MESSINA

La storia che sto per raccontare parla di tre giovani fratelli che vivevano a Messina insieme a Elisabetta, la loro sorella non ancora sposata. I fratelli erano molto ricchi e possedevano un bar situato
Waterhouse_decameron al centro della città. Un giorno, avendo tanto lavoro, decisero di assumere un aiutante e scelsero un ragazzo siriano di nome Yad. Egli aveva la stessa età di Elisabetta ed era un ragazzo alto e bello che aveva tanta voglia di lavorare e che era scappato dal suo paese a causa della guerra. Elisabetta e Yad appena si incontrarono, si notarono e iniziarono a frequentarsi nonostante i fratelli di Elisabetta non accettassero il loro amore. Un pomeriggio però mentre Elisabetta e Yad stavano amoreggiando nel retro del bar uno dei tre fratelli li vide, ma fece finta di niente. Appena ebbe però l’ opportunità di parlare con i suoi fratelli senza la presenza di Elisabetta, raccontò loro ciò che aveva intravisto e insieme decisero di licenziare Yad e di diffondere la voce che egli era un ladro, impedendogli così di trovare un altro lavoro in città. Il povero Yad in poco tempo perse tutto, perchè non riuscendo a trovare un lavoro non potè neanche più mantenersi, così finì a vivere per strada. Elisabetta non credette alla storia raccontata dai suoi fratelli e decise di rintracciare Yad e di ospitarlo nella loro grande cantina che ristrutturò e pur non essendo un posto magnifico, fu per qualche tempo la casa del ragazzo. Elisabetta ogni giorno portava il cibo al suo ospite e quando i suoi fratelli erano al lavoro lo faceva salire a casa per lavarsi. Andò avanti così per un po’ di mesi, fino a quando i vicini non raccontarono tutto ai tre fratelli. Essi nel momento in cui videro Yad lo picchiarono così tanto che finì in ospedale e decise che nonostante il suo amore fosse così grande non voleva più discutere con quella famiglia, quindi decise di partire. I tre fratelli capirono che in una città così piccola non potevano rimanere, perchè la notizia si era ormai diffusa, quindi si trasferirono a Napoli. Elisabetta invece decise di restare a Messina e di non avere più contatti con i fratelli, acquisendo più libertà e decidendo per il suo futuro senza intralci, nonostante soffrisse ancora per il suo grande amore.

                                                                                                                 Alessia Berardino 3°G

Video: Ciuri di campu (poesia di Peppino Impastato)

ciuri chi nasci
La classe III G ha realizzato dei video nell’ambito di un progetto sulla legalità, curato dal prof. Daniele Michienzi.
Gli studenti hanno lavorato sulle poesie di Peppino Impastato “Ciuri di campu” e “Nessuno ci vendicherà”: a partire dalla lettura e dall’analisi del testo poetico la classe ha poi realizzato dei videoclip musicali.Vi presentiamo il lavoro realizzato da Letizia Privitera, Emanuele Alvarez, Alessia Berardino, Mattia Rossetti, Matteo Vismara e Alessandro Brunone:

Ciuri di campu

Esercizi di scrittura filosofica

Socrates_statue_at_the_Louvre,_8_April_2013.jpgVi presentiamo quattro esperimenti di scrittura filosofica svolti dagli alunni della 3 B.

L’esercizio consiste nel riprodurre un dialogo socratico, rispettandone le caratteristiche fondamentali: tentativo di definizione, brachilogia, ironia, confutazioni.

I temi scelti dai ragazzi e i risultati sono stati profondi e rigorosi, come nel caso dei dialoghi di Giulia Bertoluzza e Laura Garau, oppure leggeri e originali, come negli elaborati di Lucamatteo Maselli e Federica Doz.

Buona lettura!

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leandro-o-dellamicizia-autentica
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Viaggio a Firenze

Video a cura del prof. Luigi Gaudio, girati durante il viaggio di istruzione a Firenze (3-6 maggio 2016)

Uno scrittore al Vico!

storia2  Lo studente Stefano Berasi di 3 G ha presentato il  7 febbraio 2015, presso la   biblioteca di Arese, il suo libro “M.J.Johns: Storia di un eroe” nell’ambito del rassegna “Scrittori a km zero”, incentrata su autori e produzione letteraria locali.  Di seguito il testo del discorso tenuto dall’autore in occasione della presentazione dello stesso:

“Secondo me l’unico vero senso della scrittura è quello di suscitare sentimenti, perché nel momento in cui un lettore legge e non prova emozioni, allora lo scrittore ha fallito nel suo intento.
Perché ciò non accada bisogna scrivere con passione; la stessa passione che deve spingere il lettore a sfogliare pagina dopo pagina.
Come non dare quindi ragione a Samuel Johnson quando diceva “ciò che è stato scritto senza passione verrà’ letto senza piacere”?
Fin da bambino mi è sempre piaciuto inventare storie e scriverle è un modo per renderle vere.
Ma di un libro va letto tutto, anche le più piccole sottigliezze che possono risultare inutili, perché ci permettono di comprendere tutto ciò che l’autore voleva comunicarci.
Le nostre azioni sono lo specchio delle nostre anime: “ogni scrittore quando legge, legge se stesso” diceva Marcel Proust.
Il mio libro è un racconto appartenente al genere narrativo e di azione, ma racconta, tra le tante vicissitudini ed avventure, una storia.
In questa storia penso che chiunque, chi più chi meno, questo è ovvio, possa immedesimarsi; pensare alla propria vita e trovare dei punti in comune, o, cosa più probabile e forse anche difficile, sostituirsi al personaggio.
Quando leggo un libro che mi piace, la cosa che faccio più spontaneamente è pensare di essere proprio quel personaggio, cercando di capire cosa avrei fatto io al suo posto.
Così facendo il libro non è più semplicemente l’opera scritta da qualcuno, ma diventa il Tuo libro, di conseguenza adesso si crea un legame tra scrittore e lettore!
Sostengo la teoria di A. Schopenhauer secondo la quale: “la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare”.
I personaggi, come ho scritto nel libro, sono ben più di qualcosa di distaccato, unito solo da missioni e avvincenti colpi di scena, ma sono sincronizzati come due lancette di uno stesso orologio, ovvero sono parti integranti dello stesso meccanismo: sono semplicemente l’uno per l’altro!
Una delle doti che di sicuro non manca loro è proprio il coraggio.
Dalla pagina 33 del libro:
“In pochi ormai hanno la forza di essere coraggiosi, ma saranno proprio loro a cambiare le cose.
Non sono in grado di affermare se il coraggio possa essere una dote innata o si possa acquisire con il tempo, perché penso siano le circostanze e il carattere di un individuo a indurlo ad essere coraggioso o meno.
Per far funzionare il grande e complesso meccanismo del mondo servono molti ingranaggi e alcuni dei più importanti sono senz’altro gli uomini con il coraggio”.
Stefano Berasi,  III G Liceo delle Scienze umane

Giornata della memoria: per non dimenticare

                                                                          Anime in fumo

“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa”. Sono queste le parole del libro di testimonianza Se questo è un uomo di Primo Levi, scrittore sopravvissuto ad uno dei più grandi genocidi a cui il mondo abbia mai assistito: la Shoah. Leggendole, mi chiedo come noi, semplici studenti, possiamo riuscire a trovare le parole adatte a descrivere o anche solo cogliere l’atrocità degli eventi che accaddero fra il 1939 e il 1945, quando circa sei milioni di ebrei furono uccisi per mano delle forze naziste. Probabilmente è impossibile, ma noi dobbiamo parlarne e non perché è nostro diritto, ma perché è nostro dovere, dobbiamo portare avanti il ricordo di uomini che sono stati privati di tutto: degli abiti, delle scarpe, dei capelli, del nome… della dignità. Ma che, nonostante tutto, non hanno perso la forza di lottare, di uscire dall’inferno per raccontarlo al mondo. Un inferno che non ha niente da invidiare a quello descrittoci da Dante Alighieri, con l’unica grande differenza che qui i “peccatori” sono persone innocenti, uomini, donne e bambini che sono stati uccisi per un Dio al quale molti di loro non credono più, visto che, come afferma Wiesel nel romanzo La notte, i nazisti “assassinarono il mio Dio e la mia anima”.

Sembra che l’anima di chi ha vissuto l’esperienza dei campi di concentramento fosse tagliata via, forse assieme ai capelli. Hoss, in Comandante ad Auschwitz, ci racconta la storia di un ebreo incaricato di spostare i cadaveri di uomini uccisi nelle camere a gas dove vide, in uno dei grandi mucchi, il corpo senza vita di sua moglie, ma non ebbe nessuna reazione, né una lacrima né una parola, il nulla. Nonostante l’essere umano basi tutta la sua esistenza su quello che sente e prova, l’uomo di cui parla Hoss non aveva reagito: la sua anima non era con lui, forse, già morta, lo aspettava. Certamente è questa la distruzione di un uomo di cui Levi parlava.

Per alcuni la colpa di questa strage è da attribuire ad una singola persona, che ha crudelmente ordinato l’assassinio di milioni di uomini, o altri reputano colpevoli i fattori sociologici che hanno portato il pregiudizio verso gli ebrei a livelli estremi e quindi al loro sterminio di massa, ma Wiesel ci ricorda che dietro alle pistole ci sono comunque uomini che hanno deciso di fare del male, uomini che avevano una scelta, uomini che hanno deciso di non avere pietà. Sono questi “uomini” che hanno scelto di immergere le mani nel sangue, persone che hanno deciso di non pensare, ma solo di essere ciechi.

Un detto recita: “più la notte è buia, più l’alba è vicina”, ma quanto può durare questo buio? Giorni? Mesi? Anni? o forse per sempre intrappolato in un terribile ricordo che “mai dimenticherai” e allora sarà valsa veramente la pena sopravvivere a una notte illuminata solo dai colpi di un’arma da fuoco? Sarà valsa davvero la pena di vedere la morte di tutti quelli che amavi? Sarà valsa la pena vedere così tante volte il fumo in cielo? e avrà ancora senso la vita stessa?

Forse le parole sono l’unico modo per dare un senso a tutto questo dolore, forse sono l’unico modo per non far sì che la notte ricada ancora ed è per questo che dobbiamo avere un giorno della memoria, per questo dobbiamo ricordarci di come sono morte quelle persone, vedere le foto dei loro cadaveri, parlare di ciò che è successo, andare contro quegli orientamenti di pensiero che vorrebbero farci dimenticare o addirittura farci credere che tutto ciò non sia mai accaduto. Per nostra fortuna le persone che hanno scritto della Shoah sono tante. Ora l’unica domanda rimane: le dimenticheremo? Io no.

                                                                                   Roberto Tagliabue, III G Liceo delle Scienze Umane

                                                                  Essere o non essere uomini

Shoah, sterminio, olocausto, genocidio, ci sono modi diversi per chiamare le atrocità commesse dal regime nazista. Queste atrocità iniziano con la pubblicazione delle leggi razziali in Germania, sottoscritte poi anche dall’Italia. Le leggi razziali elencavano una serie di divieti discriminanti per gli ebrei. Poi gli ebrei furono trasferiti nei ghetti, appositi quartieri dove vivevano isolati dal resto della città. Perché avveniva tutto ciò? Avveniva perché nella Germania nazista, per giustificare le mire espansionistiche di Hitler, si era affermato il concetto che la razza ariana era quella pura e quella che doveva comandare sulle altre “razze”. Gli ebrei furono quindi sottomessi e ritenuti inferiori, per il semplice motivo di avere una religione diversa dai tedeschi, se religione si può chiamare quella che animava i nazisti. Gli ebrei non erano più uomini per molte persone che li trattavano come bestie; in «Bei tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare curato da Klee, Dressen e Riess si legge che durante i massacri in Lituania si rideva e si facevano foto. Il ghetto era il luogo dove gli ebrei (che ancora non erano stati uccisi) vivevano con la certezza di essere portati in campo di concentramento. Nella Canzone del ghetto di Varsavia emerge la volontà di ribellione degli ebrei che vivevano in questo ghetto, che preferirono morire combattendo piuttosto che essere deportati. La “vita” dei deportati al campo di concentramento ci è chiara grazie alle testimonianze dei sopravvissuti; essi venivano spogliati delle loro vesti, i capelli venivano tagliati e il loro nome diventava un numero impresso sulla pelle. Ne La notte di Wiesel vengono espresse tutta la sofferenza e la disperazione per la morte di cui era impregnata l’aria. Ci sono foto dell’epoca che rappresentano gli ebrei in campi di concentramento, sono tutti uguali, vestiti allo stesso modo: questo serviva a togliere la personalità ai prigionieri e a compiere, come dice Primo Levi in Se questo è un uomo, “la demolizione di un uomo”. Questa demolizione è resa con un racconto impressionante anche da Hoss, in Comandante ad Auschwitz in cui si dice che un ebreo addetto alla camera a gas aveva trovato il corpo di sua moglie e aveva continuato le sue mansioni come se non fosse successo nulla; il lager riusciva ad annullare l’uomo, solo pochissimi mantennero la loro identità. L’esperienza della morte di Levi, probabilmente morto suicida, testimonia la difficoltà dei sopravvissuti a convivere coi ricordi del lager.

La canzone del bambino nel vento di Guccini chiede “come può un uomo uccidere un suo fratello eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento”. Come poterono dunque i nazisti compiere tali atrocità? Per i nazisti semplicemente quelli non erano fratelli in quanto non venivano considerati uomini; ma la realtà è esattamente all’inverso: furono più uomini gli ebrei che morirono come bestie che i nazisti che uccisero sentendosi uomini ma essendo bestie. In questo sterminio però ci furono anche dei veri uomini, campioni di umanità, 24.000 Giusti insigniti dallo stato di Israele, riconoscimento che viene dato a chi ha salvato vite umane durante l’Olocausto. Una storia esemplare è quella di Oskar Schindler che salvò molti ebrei facendoli lavorare per lui in una fabbrica e poi riuscendo a farli scampare ai campi di sterminio. Sono storie di Uomini che di fronte alle assurdità naziste hanno saputo dire no. Credo che tutti siano concordi nel condannare lo sterminio nazista ma c’è chi è polemico sull’istituzione del giorno della memoria. Lo scrittore francese Michel Houellebecq ha detto che il giorno della memoria non ha gli effetti sperati e non sembra che serva a molto. Effettivamente c’è da domandarsi a cosa serva ricordare questo giorno, 27 Gennaio 1945, quando i russi entrarono ad Auschwitz. Sono passati 70 anni eppure noi ora sappiamo cosa successe. Anche il presidente supplente della repubblica italiana, Pietro Grasso, in visita ad Auschwitz ha detto che tutti i giovani dovrebbero sentire le testimonianze dei sopravissuti per potere un giorno tramandarle. La domanda però non cambia, perché serve ricordare i fatti della Shoah e di ogni sterminio? La risposta ovvia è per far sì che questi fatti non accadano più, ma non è forse vero che poche settimane fa un fanatico musulmano ha ucciso degli ebrei a Parigi? Questo significa che è inutile ricordarsi di 6 milioni di ebrei sterminati? Io non credo, la giornata della memoria non deve essere solo il 27 gennaio, ma ogni volta che ci si trova di fronte ad atti antisemiti, e se questo messaggio è recepito da altri esseri umani allora non è inutile ricordarsi degli stermini. Eppure questo messaggio troppe volte viene ignorato, sepolto sotto macerie di scuse e indifferenza, perché ci saranno sempre delle ragioni per cui l’uomo ucciderà. “Io chiedo quando sarà che un uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare e il vento si poserà” dice ancora Guccini. Certo, il suo è un pensiero pessimista ma è la realtà, per cambiare la quale ci dovrebbe essere un po’ più di quei Giusti che salvarono tanti ebrei … Ma anche questo sembra utopia. C’è da chiedersi se sia davvero come dice Sebastiano Vassalli nel romanzo Un infinito numero. Egli racconta la storia di Enea che, dopo aver subito lo sterminio del suo popolo, arrivò nel Lazio e fece lo stesso con le popolazioni indigene. Cosi la storia è destinata a ripetersi “un infinito numero di volte” perché, per quanto ce lo si possa augurare, l’uomo sembra non risucire ad imparare dai suoi errori.

                                                                               Alessandro Mauri, III A Liceo Scientifico

La follia nazista agli occhi di vittime e carnefici

I marziani non possono fornire una documentazione da cui risulti che i loro nonni sono ariani. E così il maggiore tedesco riferisce a Berlino che Marte è popolato da ebrei.

                                                                                                                  Philip K.Dick

Fu questa la risposta del noto scrittore fantascientifico statunitense, creatore del romanzo da cui venne tratto il film Blade Runner, a una domanda a lui posta da un giornalista in un’intervista.

Ma come fu visto l’avvento nazista dagli occhi della popolazione direttamente interessata da questo profondo cambiamento? E come mai trovò così tanto seguito una tesi così insana e squilibrata?

Per rispondere alla prima domanda, si deve entrare nei panni di coloro che durante l’era nazista sono stati il principale, ma non unico, capro espiatorio del pensiero hitleriano: gli ebrei. Attraverso le testimonianze dirette degli uomini, delle donne e dei bambini che all’epoca furono perseguitati, deportati e sterminati da quel folle ideale al cui capo si trovava Hitler, si è stati in grado di ricostruire la vita, i pensieri e le preoccupazioni di ogni giorno che gli ebrei erano costretti a patire, sia fuori, sia soprattutto all’interno dei campi di concentramento e sterminio tedeschi.

Una tristemente famosa canzone, risalente ai primi anni ’40 del Novecento, la cosiddetta “Canzone del ghetto di Varsavia”, un ghetto ebreo istituito dai nazisti nella periferia della città polacca, racconta di come gli ebrei vivessero in uno stato di morte consapevole, ed esorta la comunità stessa a ribellarsi contro il dominio nazista e contro l’intero sistema tedesco del 1940. Questa canzone fu l’inno degli ebrei tedeschi fino al 1943, anno in cui avvenne effettivamente la rivolta, che si concluse, però, con la distruzione del ghetto e la deportazione di più di 50 000 ebrei nel campo di concentramento di Treblinka. Il numero degli ebrei deportati si può difficilmente immaginare, tuttavia esiste una fotografia, scattata da un reporter nazista per un giornale tedesco, che ritrae un numero impressionante di prigionieri in piedi, al freddo, in uno dei più vasti campi di concentramento della Germania nazista, il campo di Buchenwald.

Le poche altre immagini, giunte fino a noi, che ritraggono gli orrori e la follia del periodo nazista risalgono alla fine del 1945, dopo la liberazione dei campi da parte degli americani.

I “salvati”, come li chiama Primo Levi nel suo romanzo autobiografico nel quale racconta della sua deportazione al campo di Monowitz, che faceva parte del complesso formato dai campi di Auschwitz, Birkenau e Monowitz stesso, raccontarono ai militari ciò che avevano vissuto e ciò che avevano visto nel loro periodo di prigionia. Primo Levi racconta di come persino l’identità del prigioniero fosse ridotta a un numero, e di come il nome poteva sopravvivere solo nel caso in cui si fosse trovata la forza di conservarlo, cosa rara nel campo, poiché l’unica forza che potesse spingere i prigionieri era quella della speranza di sopravvivere. Un superstite del campo di Treblinka, Richard Glazar, ebreo praghese, raccontò la prima notte nel campo, descrivendo il fumo dei forni crematori, le fiamme che bruciavano e che “consumarono la sua fede”, il silenzio, e raccontando la normalità della morte all’interno del pensiero dei prigionieri, come se dietro ogni angolo del campo potesse esserci la fine di un incubo, che poteva significare il cancello di uscita del campo, ma che più spesso significava l’uscita dal camino dei forni crematori, mentre le ceneri si disperdevano nel vento; un vento che si potrà placare solo quando l’uomo riuscirà a vivere senza sentire l’impellente bisogno di uccidere, di distruggere, di sterminare. Questo tema emerge anche dalla famosa canzone di Francesco Guccini, intitolata Auschwitz, del 1967, in cui il vento ha il significato figurato della morte, che trasporta le ceneri del bambino, “morto con altri cento”.

Come se ci si trovasse sulle sponde di un fiume, in cui scorre il sangue degli ebrei, sull’altra sponda di questo si trovano i nazisti, desiderosi di trovare un colpevole alla crisi e ai mali del mondo, un capro espiatorio valido per giustificare la società corrotta e “impura”, il bisogno di lasciare il mondo alla razza ariana, “pulita” e superiore. Sono disposti a tutto pur di purificare la società, a costo di sterminare il “cancro” dell’umanità, che Hitler, il loro capo identifica, nel suo libro “Meinkampf” (Le mie battaglie), negli ebrei.

Alcuni membri delle SS e ufficiali nazisti, riuscirono a trovare il modo di scrivere ciò che vedevano nei campi sotto forma di diario: qualcuno di questi diari è giunto fino a noi.

Esistono due tipi di narrazione, all’interno di questi diari. Alcuni ufficiali appaiono molto più distaccati, freddi e spietati di altri, che descrivevano il fenomeno degli stermini di massa come un fenomeno necessario per il bene dell’Europa e del mondo intero. Nei loro testi si trovano testimonianze di esecuzioni e pene capitali viste come un fenomeno “turistico”, tanto che, come riportato nella raccolta Bei tempi di E. Klee, W. Dressen e V. Riess, in Lituania, gli abitanti dei paesi portavano i bambini alle esecuzioni pubbliche, e applaudivano ad ogni ebreo ucciso.

Un altro tipo di nazista è quello che si pone delle domande sull’umanità e sulla vera natura dello sterminio, come evidenziato nel romanzo Comandante ad Auschwitz, di R. Höss, nel quale uno dei tedeschi, dopo aver visto un ebreo addetto ai forni crematori scoprire il cadavere della moglie ed essere rimasto imperturbabile sia durante che dopo il fatto, si chiede che cosa siano o che cosa siano diventati gli ebrei a causa dei tormenti subiti nei campi.

Alla fine del conflitto, furono molte le testate giornalistiche che volevano intervistare i sopravvissuti alle atrocità del campo, per poter comprendere dagli occhi di coloro che furono direttamente interessati, quale fosse il loro pensiero più ricorrente, ma soprattutto per comprendere cosa provassero gli ebrei e i detenuti ormai fuori dall’incubo. In un’intervista, ad esempio, a Elie Wiesel, quindicenne il giorno in cui gli Alleati liberarono il suo campo, fu domandato se adesso che aveva visto gli orrori del campo, riponesse odio e rancore nei confronti del popolo tedesco. La sua risposta rimase famosa nella storia…

Non credo alla colpa collettiva: soltanto i colpevoli sono colpevoli. I figli degli assassini sono bambini, non assassini a loro volta.

                                                                                                                                                                                           Samuele Dicandia, III A Liceo Scientifico

Origini e ingranaggi della più grande macchina di annientamento di un uomo

 

Quella della Shoah è una delle pagine più buie della storia umana. Spinti dalle parole di un dispotico dittatore, uomini hanno compiuto un massacro senza eguali, con una crudeltà ingiustificata e a sfondo puramente razziale. Per poter trovare una  causa a questo comportamento e a questa mentalità bisogna guardare al contesto sociale in cui avvengono questi fatti e ai precedenti nella storia. Da sempre infatti l’uomo ha avuto bisogno di trovare un capro espiatorio (fin dalla coniazione dello stesso termine), ovvero di qualcuno o qualcosa da colpevolizzare per quei problemi senza un volto che continuamente lo tormentavano. Quando ciò si ricerca in una o più persone, la scelta ricade sicuramente sulle minoranze etniche, culturali o religiose. Più volte nella storia gli ebrei sono stati inquadrati come l’origine dei mali, in quanto minoranza presente in tutti i paesi dell’Occidente da molto tempo. Per non andare indietro fino alle prime diaspore in età imperiale romana, ricordiamo per esempio le prime leggi antiebraiche emanate da papa Innocenzo III nel 1200, o la cacciata degli ebrei dalla Spagna a seguito della Reconquista.

La necessità di un capro espiatorio nasce da situazioni di profonda crisi. Negli anni 30 la Germania sta affrontando una crisi senza eguali a seguito della sconfitta nella Grande Guerra. La povertà dilaga, manca il lavoro, la moneta ha subito una svalutazione tale da rendere il pane costoso quanto l’oro. I tedeschi si trovano sommersi dalle difficoltà in totale disperazione. E’ per questo che il movimento Nazionalsocialista riesce ad ottenere una tale popolarità. I nazisti trovano un colpevole, qualcuno da accusare per tutti i mali che stanno capitando al popolo tedesco. È in questo modo che i cittadini accettano e addirittura glorificano le azioni razziste antiebraiche in tutto il paese, come testimoniato nel frammento dell’opera di Klee, Dressen e Riess “’Bei tempi’. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi lo stava a guardare” (“gli abitanti del paese, fra cui madri con i loro bambini, applaudivano ogni volta che un ebreo venne ucciso”).

L’intero popolo tedesco non ha colpa nel massacro perpetrato nei campi di concentramento, ma pare impossibile sostenere la tesi di alcuni secondo la quale “i tedeschi non sapevano”. Impossibile credere alla versione del governo secondo la quale gli ebrei andavano in speciali località riservate. Piuttosto, i tedeschi preferivano non ammettere l’evidente realtà. Se per paura o per effettivo sostegno alla causa o per repressione politica, non vi è mai stato un vero movimento di opposizione, in quanto non vi è mai stata una grossa fette di popolazione che abbia mai avuto la volontà di opporsi a tutto questo. Non si possono colpevolizzare i civili per ciò che le SS hanno fatto nei campi di sterminio, in quanto come dice Wiesel “I figli degli assassini sono bambini, non assassini a loro volta”.  I tedeschi hanno avuto il ruolo di spettatori passivi, che assistevano a tutto ciò che accadeva, indottrinati dalla dialettica hitleriana e costretti al silenzio dalla paura. È così che nulla ha fermato ciò che sarebbe irrispettoso nei confronti delle vittime chiamare semplicemente massacro. In campi come Birkenau o Treblinka, non ci si limitava ad uccidere gli ebrei. Vi era una operazione più lunga e massacrante di annientamento dell’uomo. Le SS non aspiravano solo a far morire quanti più ebrei possibile. Li facevano lavorare, li facevano soffrire, li mettevano l’uno contro l’altro, li facevano vivere in condizioni a dir poco animalesche, mantenendo tuttavia un’ alienante precisione militare nell’organizzazione. Gli ebrei si trovavano a perdere tutto ciò che li rendeva persone: i propri capelli, i propri cari, la propria personalità, la propria vitalità, il proprio nome. Assistevano impotenti al massacro di tutti i loro bambini o al loro utilizzo come cavie di laboratorio in quanto solo di peso in quella macchina che era il campo di lavoro come riecheggia nella canzone “Auschwitz” di Guccini.

Nei campi è stato perpetrato qualcosa di più profondo di un massacro, più crudele di un genocidio. Come testimoniato da Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”, gli ebrei nei lager nazisti hanno dovuto subire un processo di logoramento che ambiva alla “demolizione dell’uomo”. Chiunque sia sopravvissuto ai campi di concentramento è la prova vivente di quel dolore. Molti tra i sopravvissuti si tolsero la vita per il peso incessante di un esperienza tanto traumatica. Pochissimi riescono a credere ancora nella propria fede. Le SS sono riuscite comunque nel loro intento anche con i sopravvissuti. Li hanno segnato con qualcosa di tanto drammatico che non dimenticheranno mai e che continuerà a perseguitarli nel sonno. Hanno fatto perdere a quelle persone una parte di se stessi.

Non bisogna dimenticare mai affinché tutto questo non si riaccada. La Shoah al giorno d’oggi è ancora un tema molto caldo, ripreso moltissimo nella moderna letteratura. È la consapevolezza dell’orrore che può far sì che tutto ciò non si ripeta. La storia tende sempre a ripetersi nei suoi aspetti peggiori, soprattutto quando non ricordiamo gli errori commessi nel passato. Bisogna impedire che la Shoah si ripeta, non solo in quanto genocidio razziale rivolto agli ebrei e ad altri “diversi”, ma anche come momento in cui si è annullata la condizione umana, sia dalla parte degli internati, sia dalla parte dei carcerieri. Dobbiamo continuare a sentire storie come quella di Primo Levi, dobbiamo continuare a sentirci male a leggere le condizioni nei lager. Se non continuiamo a fare così arriveremo a dire che tutto questo non è mai successo, o è stato semplicemente gonfiato dai sopravvissuti. Arriveremo a trovare un nuovo capo espiatorio. Arriveremmo a compiere un massacro di nostra spontanea volontà. Elimineremmo dalle nostre menti i ricordi dello sterminio antiebraico il cui solo pensiero dovrebbe farci tremare per averci aperto gli occhi sull’infinita cattiveria umana.

 

Hasantha Ilayperuma, IIIA Liceo Scientifico

Nous sommes avec vous

Chers amis,

nous nous permettons de renoncer à la formalité qui, en ces tragiques moments, éloigne et fait le jeu des conventions.

Nous voulons participer aux condoléances et, avec une profonde émotion, montrer notre désaccord.

Nous devons rappeler que la haine doit être combattue avec la culture et avec la conscience de notre nature d’ être humaine: nous sommes tous égaux, au-delà des idéologies et traditions.

Marchons ensemble mes amis, parce que la liberté est comme l’air: quand il y a l’ air nous ne le sentons ; quand il n’ y a pas d’air , ne sentons son absence.

Nous sommes avec vous.

Nous sommes Charlie, Ahmed et tant d’autres…

La classe 4^G du lycée des Science Sociales, Corsico Milan

Cari amici,

ci permettiamo di rinunciare alla formalità che, in questi tragici momenti, allontana e fa il gioco delle convenzioni.

Vogliamo partecipare alle condoglianze e, con profonda commozione, mostrare il nostro dissenso.

Dobbiamo ricordare che l’odio deve essere combattuto con la cultura e con la coscienza della nostra natura di esseri umani: siamo tutti uguali, al di là delle ideologie e delle tradizioni.

Camminiamo insieme, perché la libertà è come l’aria: quando c’è non ci si accorge della sua importanza; quando non c’è, percepiamo la sua assenza.

Siamo con voi!

Siamo Charlie, Ahmed e tanti altri…

La classe 4°G del liceo delle Scienze Sociali Corsico – Milano

liberta-di-pensiero

Carcerati 2.0

Anche quest’anno il Comune di Corsico offre alle scuole
del territorio il “Progetto carceri” per contrastare il
bullismo e la devianza giovanile.
Un progetto prezioso e altamente educativo, che ha fatto
conoscere l’anno scorso al nostro Liceo una realtà dura
e dolorosa: quella vissuta dai carcerati.
Ricordo bene quando, martedì 27 maggio 2014, si è svolto
in auditorium il secondo e ultimo incontro con il “Gruppo
della trasgressione”, una compagnia teatrale molto particolare.
I suoi componenti infatti provengono dai carceri di Bollate e
Opera.
Esatto, si tratta di detenuti colpevoli delle più
svariate illegalità, che, attraverso attività culturali come il
teatro, all’interno e al di fuori del carcere, lavorano per il
proprio riscatto sociale.
Dei carcerati a scuola?
Com’è possibile che la NOSTRA scuola possa avere ospitato dei
“delinquenti” del genere? Quale insegnamento avremmo mai potuto
trarre da costoro?!
Domande legittime, ma chi meglio potrebbe insegnarci i valori
della legalità e della libertà di un uomo a cui, siccome
ha infranto la prima, gli è stata tolta la seconda?
Durante l’incontro hanno evidenziato quanto fossero cambiati nel
tempo grazie a questo progetto nato a Bollate.
Nei precedenti luoghi di detenzione si sono sentiti come dei
“leoni chiusi in gabbia”, tenuti in cattività.
La galera intesa in questo modo dovrebbe spaventare, punire,
ma quando si esce non si è imparato nulla, si esce arrabbiati
con il mondo ed “entrare e uscire” diventa la normalità.
A detta loro, all’interno di quel tipo di carceri non si hanno
aspettative sul futuro, manca una guida, che li aiuti a reintegrarsi
nella società.
Lo stato, nel rispetto dell’articolo 23 del codice penale, deve
lavorare soprattutto sulla rieducazione piuttosto che sulla punizione
oppressiva. La strada da percorrere in tale senso è ancora lunga.
Raccontandoci le loro esperienze ci hanno voluto esortare a vivere
onestamente e nel completo rispetto degli altri. Ora abbiamo a che fare
con persone nuove facenti parte di un gruppo affiatato di uomini che,
nonostante la loro condizione, che potrebbe portarli a non avere nessun rimorso,
hanno sviluppato una coscienza civile.
Un insegnamento importante che custodirò.

Stefano Formenton V E